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Shame

Shame (****-)
Un film di Steve McQueen. Con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale. Drammatico, colore, 99 min. Gran Bretagna 2011.


Un eccellente Michael Fassbender (A Dangerous Method, X-Men – L'inizio) interpreta Brandon, uomo d'affari newyorchese che passa il tempo fra una conquista e l'altra, consumando quantità industriali di pornografia. Qualcosa però cambia quando gli piomba in casa la sorella, un'ipersensibile Carey Mulligana (Drive). Nel suo secondo lungometraggio Steve McQueen approda negli Stati Uniti, il regno dell'immagine: in una New York fredda, de-saturata e artificiale il protagonista si muove alla disperata ricerca dell'orgasmo, ricercando il sesso in tutti i modi possibili, finendo per consumarsi e allontanare da sé ogni sentimento. Eppure nella frenesia del consumismo, qui al suo ultimo stadio, quello che cancella le emozioni, una lacrima trova ancora il modo di rigare il viso: lo scontro con la sorella (la sua famiglia) diventa l'àncora di salvezza dalla disaffezione. E' una rappresentazione dell'occidente impietosa, tanto amara quanto reale, che colpisce i nervi scoperti della società rivelando la valenza politica e sociale di questo film.

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Crisi

E si parla di altalena finanziaria ma, fuori dalle stanze di Wall Street, i comuni mortali vedono oscillare solo il proprio umore alternando stati di euforia alla mestizia che contraddistingue un essere umano completamente esautorato dall'essere "faber fortunae suae".
Cari guru della finanza, le vostre previsioni non ci interessano. Sembrano un reloop di un incubo atto a frammentare i nostri progetti annotati in pezzi di carta (non utili come gli assegni e le banconote) e destinati ad essere accartocciati tra i rifiuti di un qualche universo chiuso: le nostre camere da letto.
Che la sofferenza rimanga inflazionata tra gli indicatori artificiosi del benessere. Quaggiù le primavere sono più profumate perchè non hanno una scadenza convenzionale ma una profonda stabilità sentimentale che i trend non possono garantire. Mai.

kykeon. 

La sconfessione di un kebabbaro

E' una sera come tante. Uno di quei momenti da crepuscolo estivo. Il cielo assume colorazioni vaghe, imprecise, sfumate. Il rosso abbraccia il cielo turchese e i colori si confondono tra di loro, finchè il limite tra le tracce cromatiche non diventa una confusione, come una sbavatura di un bambino che ha appena tracciato con poca cura l'acquerello sulla carta.
Cammino per le strade del mio quartiere. Parecchi filari di case si dilungano ai margini delle strade. Sono case storiche, abitazioni operaie di inizio novecento. Non sono le graziose villette da epoca del “miracolo italiano”; quelle case basse, circondate da un giardino che vuole narcotizzarci con l'idea che tra il proprio nucleo familiare e il mondo intero ci sia un eden personale. Queste case sono riversate sulla strada: c'è solo un muro che divide la privacy dalla gogna. Attraverso questi ammassi ordinati di cemento filtra l'odore di cibo. Sento parole frammentate che risuonano dai televisori delle famiglie; cerco di capire con orecchio attento di cosa si stia parlando all'interno delle famiglie; la colonna sonora di ogni abitazione è la medesima: il tintinnio metallico delle forchette che sbattono contro i piatti di ceramica. E' un suono dolce che accarezza la mia immaginazione e provo a pensare quali storie abbiano da raccontare quelle famiglie.
Arrivato alla fine del quartiere mi imbatto in un ponte di ferro e cemento, una delle prime strutture che ci ricordano quanto fu burrascoso il passaggio dall'economia agricola a quella industriale. Dalla zappa al martello, dal legno all'acciaio, dalla campagna alla città. Sotto il ponte il vuoto e poi la ferrovia, con treni merci arrugginiti dall'usura del tempo, fermi ad aspettare che qualcuno riempia quei container. Ma sono immobili come il grado di civiltà di questa città, incapace di alienarsi dalle industrie e dal denaro. Quando il denaro potrà ricomprare il movimento di quei treni , potremo essere orgogliosi di vivere in una inciviltà che fa del denaro la moneta del progresso.
L'ora e i profumi di cibo delle case, mi fanno venire fame. L'orologio biologico ha scoccato l'ora del capriccio. Decido di fermarmi a mangiare un kebab. E' uno di quei “kebabbari” che non frequento quasi mai, perchè ormai appartengo alla clientela affezionata di altri gestori. Si sa che le abitudini sono difficili da scrostare perchè appartengono ad uno stato di vita dal quale difficilmente ci dissociamo. La situazione mi ha indotto ad entrare.
Il gestore è scuro di carnagione, ha il sorriso stampato sulle labbra e nei suoi occhi si intravedono i tratti dell'accoglienza. Mi invita a sedermi finchè aspetto che il cliente che mi ha preceduto venga servito. Dopo qualche minuto è il mio turno e dopo aver ordinato il mio kebab, inizio a rompere il ghiaccio e parlo con il timido lavoratore. Gli rivolgo le solite domande di circostanza, stupide quanto necessarie.
E' da tanto che hai aperto? E' la prima volta che vengo qua, che carne usi?
Lui, timido quanto cordiale mi risponde con una fluidità inaspettata anche se la cadenza straniera è evidente.
Vengo da .... Ho aperto da due anni. Sempre qui a lavorare. Dodici ore al giorno.
Probabilmente non ha sentito la mia domanda sulla carne, ma non importa. Penso di aver già ottenuto l'attenzione del mio nuovo amico.
A dire il vero, il locale non è frequentatissimo e il kebab è migliore altrove, però apprezzo la sua disponibilità. Sono rimasto l'unico cliente. Prende posto vicino a me ed inizia a tirare merda contro chiunque. Si lamenta di questo Paese, delle tasse che sono altissime, del razzismo e del finto moralismo.
Non posso che dargli ragione e penso con me stesso Cazzo, ma perchè non è rimasto al suo Paese! E' un po' il senso comune che logora le menti di tutti, ma poi mi vergogno di essermi posto quel quesito e decido che gli spritz con gli amici possono aspettare. Lui ha da raccontarmi storie molto più interessanti del torcio che ci fumeremo.
Io partito da ... tre anni fa. Sono scappato perchè mi cercavano.
Lecitamente lo interrompo e gli chiedo: Cosa hai fatto? Perchè ti cercavano?
Io cattivo per polizia. Ho ucciso poliziotto bastardo. Ma era vendetta per mio fratello. Lui era in prigione perchè dicevano che era terrorista! Cazzo, lui era innocente! Lui ucciso solo perchè sindacalista. E' Governo che ammazza, non mio fratello! Io sono scappato, ma mi amazzavano anche a me se rimanevo là!
Nei suoi occhi si scorgevano vari stati d'animo. Il pentimento per aver commesso un omicidio, secondo lui necessario alla sopravvivenza dell'onore; la rabbia per quel vile e repressivo atto dello Stato; la nostalgia per la mancanza dei profumi, del suolo più familiare. La libertà di muoversi è un diritto dell'uomo: ovunque si vada, i ricordi legati al proprio passato e alla propria terra sono radicati dentro la coscienza di ognuno e quel filo invisibile ed indissolubile che ci lega alla nostra Terra Madre è una bellissima e dolce filastrocca che ci rende innocenti, quasi fanciulli.
Dopo qualche minuto di conversazione con l'amico, conosco buona parte della sua vita. Più che una conversazione è uno sfogo, una chiacchierata unilaterale, un flusso di coscienza macchiato di rabbia e disperazione. Servire kebab, per lui, non è edificante né gratificante. Non giudico il suo lavoro dal punto di vista sociale. In effetti, colui che vende kebab è molto spesso emarginato dalla società sia per il tipo di clientela che frequenta i locali, sia per le infinite ore che separano le chiavi di casa dal buco della serratura. La sua frustrazione, tuttavia, è evidente nei suoi occhi: svolgere una mansione che non piace, con orari di lavoro massacranti in un luogo detestato a causa degli indigeni con la puzza sotto il naso, sono i soliti che identificano la diversità come una forma di inferiorità, con un atteggiamento snob dettato dalla paura di confrontarsi. Ma non è dell'atteggiamento dei miei “conterranei” che voglio parlare.
Potrebbe chiamarsi Ahmed, Mohamed o Abdullah e dopo il silenzio, dovuto sia alla mia scarsa eloquenza sia al fatto che lui abbia palesemente ragione; lui riprende in mano la chiacchierata e mi fa notare cose ovvie, banali ma che acquisiscono un significato più profondo proprio perchè nessuno le dice per qualche strano motivo: Voi... siete tutti uguali. Al mio paese c'erano tante pecore. Tutte uguali, si muovevano insieme. Vedo che voi giovani siete come le pecore: vi muovete in gregge e nessuno dimostra la propria personalità. E' una cosa che vedo anche nel mio paese. C'è chi cerca di assomigliare agli americani e chi si oppone e fa il contrario. Vedo sempre ragazzi, come te, così diversi nei vesti, comportamenti, idee ma così simili nel loro modo di fare.
Provo un profondo imbarazzo, lo ammetto. Una sincera inferiorità nei confronti di mio padre che ha lottato e sofferto molto per ottenere questo tipo di libertà, la stessa che io sto consumando sgranandola e fumandola. Con l'illusione che la libertà sia la libera scelta del canale, quando faccio zapping. Appartengo a una realtà che si batte contro le ordinanze del sindaco per la chiusura di un bar e che la ribellione la vede nei trick con lo skateboard, nello sputare la chewing-gum a terra, nel partecipare all' “evento internacional de musica eletronica”.
Questa è la ribellione? La profonda visione fondamentalista del denaro, che è un po' la vera rivoluzione permanente.
Sono profondamente marxista: vedo due classi, che sono le due facce della medesima moneta: il lato numerico e del valore che rappresenta la spietata legge del mercato e dell'esclusione; la faccia “alternativa” legata alla cultura, alle effigi e ai miti, legata ad un atteggiamento quasi di devozione “religiosa” nei confronti della conoscenza. Vi è un legame perverso tra i due lati di questa moneta, che è un po' la sintesi di questa epoca.


Ecco, il mio marxismo puritano e la mie ideologie crollano.


Non riesco ad intravedere spiragli di uscita, perchè anche io sono coinvolto in questo giochino diabolico.
Il kebbabaro irrompe: Americani hanno distrutto la mia vita. Hanno messo droga nelle nostre parti e tutti sembrano impazziti. Adesso in mondo arabo sento puzza di stanchezza. Tutto crollerà, ne sono sicuro. Siamo tutti prigionieri, anche voi, ma non ce lo dicono. Ragazzo mio, dovete leggere e studiare perchè i libri sono le vere armi. Ricordati.
Pago il conto. Il kebab è finito. Anche lui ha raggiunto il compromesso con l'impero, perchè vende Coca-Cola e Red Bull, ma chiaramente deve sopravvivere. Le sue parole soffiano nelle mie orecchie, quasi come delle profezie.
Lo saluto, con un abbraccio perchè provo vicinanza con quello che lui mi dice e sinceramente mi sento stupido nei confronti di chi ha molto da dire e che ha una propria visione lucida della realtà. Cosa che io, in questi anni non ho fatto perchè mi sono legato ad una parte di mondo, accontentandomi di essa senza uscire da quella marginalità che ora mi soffoca.
Mi vengono in mente tanti aforismi e tante citazioni. Le stesse che ripetiamo quando vogliamo dimostrare la nostra cultura ma dalle quali noi stessi non impariamo il significato.
Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti diceva De Andrè. Il consumismo e la nostra stupidità ci trasformano in fatali armi da guerra, non ci accorgiamo, ma è così. Potrei scrivere un libro ma non lo faccio, perchè da oggi, una vertigine mi ha scagliato giù dal piedistallo della ragione: ora sono un coglione come tanti, ma con la voglia di imparare. Più avanti potrò scrivere un libro, quando vivrò racconti come questi. Riconoscere di essere vecchi senza esperienza è il primo vero passo verso la rivoluzione, ma prima di tutto restiamo umani.

kykeon.

Racconto che partecipa al concorso "l'Italia che Vorrei"

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